IN QUIETE COOPERATIVA

Per comprendere davvero questa storia bisogna tornare alla fine degli anni Novanta. «Alessandro e io ci siamo conosciuti intorno ai 16 anni, in birreria, dove eravamo arrivati dai nostri paesi, Rassina (AR) e Bibbiena (AR). Abbiamo parlato di pesca, abbiamo scoperto una passione in comune e il già il giorno dopo facevamo progetti su come avremmo potuto provare ad allevare le specie autoctone – racconta Andrea, classe 1982. Sapevamo che non sarebbe stato semplice trovare un impianto vecchio con una concessione attiva per la derivazione delle acque pubbliche, ma la motivazione e il sogno erano forti. Negli anni ho capito, infatti, che volevo lavorare all’aria aperta, non sono fatto per un ufficio».

Il primo tentativo di rivolgersi alla Provincia di Arezzo non ha portato alcun risultato ed è stato nel 2009 che i due amici sono giunti a Molin di Bucchio seguendo il corso del fiume Arno. «L’impianto, autorizzato alla fine dell’Ottocento, era collegato al mulino. Quando siamo arrivati le vasche erano piene di terra e sedimenti in abbandono da cinquant’anni. Claudio, il proprietario, ha ricevuto questa proprietà in eredità, ha creduto con noi nel progetto e ci ha aperto le porte di casa sua. Voleva rivedere attiva l’Antica acquacoltura Molin di Bucchio, l’allevamento dove giocava da bambino» racconta Andrea.

Dieci anni fa i due amici, che avevano entrambi un altro lavoro, decisero di investire tre pomeriggi a settimana a svuotare le vasche, a mano e Claudio offrì loro un contratto d’uso gratuito per vent’anni: tutt’ora la Cooperativa In Quiete riconosce alla proprietà il canone per la concessione demaniale, circa 300 euro all’anno.

Mentre l’impresa prende corpo, nel 2015 Andrea partecipa al campus ReStartApp di Fondazione Edoardo Garrone. Il suo obiettivo è chiaro fin dall’inizio: «Recuperare le vasche di Molin di Bucchio significava da una parte  contribuire a salvare le specie autoctone dell’Appennino, dall’altra poter allevare la trota di questo territorio riprendendo una storia iniziata nel Duecento all’eremo di Camaldoli, dove c’è un laghetto all’interno del quale i monaci hanno sempre praticato l’acquacoltura di sussistenza» spiega Andrea. Attualmente In Quiete collabora con l’Ente Parco e con la Regione Toscana in un progetto di conservazione che riguarda il Barbo tiberino, il Gambero d’acqua dolce e il Ghiozzo di ruscello, tutte specie a rischio estinzione.

Barbo tiberino, il Gambero d'acqua dolce e il Ghiozzo di ruscello

Il Barbo tiberino è una specie endemica dell’Italia tirrenica ed è classificato come vulnerabile dall’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN, per la sigla in inglese). Anche il Ghiozzo – diffuso nei fiumi Arno, Ombrone, Tevere e Serchio – è vulnerabile, per una diminuzione del 30% della popolazione negli ultimi 10 anni per effetto dell’introduzione di specie invasive e perdita nella qualità dell’habitat. Il Gambero d’acqua dolce, invece, è in pericolo in tutti gli habitat europei, è nella Red List dell’IUCN.

«Siamo i primi ad aver riprodotto il Ghiozzo in cattività» spiega Andrea mostrandoci alcuni esemplari adulti di questo pesce. «Gli esemplari di gambero autoctono che avevamo recuperato in due torrenti all’interno del Parco nazionale sono morti in un mese. Il problema non è la qualità dell’acqua, ma la presenza in Casentino del “Gambero killer della Louisiana” come abbiamo potuto appurare mandando i corpi ad analizzare a Londra» spiega. Qualcuno ha gettato la specie aliena invasiva all’interno di un lago a un chilometro dai confini del Parco nazionale: «Manchiamo totalmente di consapevolezza, da parte nostra abbiamo segnalato il problema alle istituzioni» conclude Gambassini.

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