Rispetto al successo della sua idea, Erica Pini parte da una considerazione: «Oggi la domanda italiana di bacche di goji è maggiore rispetto all’offerta nazionale e siamo costretti ad importare il prodotto dalla Cina. Se si guarda all’Europa – aggiunge – il quadro è ancora più roseo, perché l’Italia è il Paese più adatto alla coltivazione del frutto, quindi il mercato potenziale di riferimento non è solo quello interno italiano, ma continentale».

Questo comporta dei rischi: nei primi mesi del 2020, ad esempio, sono arrivati dal ministero della Salute numerosi richiami relativi ad una produzione potenzialmente dannosa per il consumatore. Ad aprile il quotidiano  online indipendente Il Fatto Alimentare scrive: «Continuano i richiami di bacche di goji per la presenza di carbofuran (insetticida) e esaconazolo (fungicida) oltre i limiti di legge». Tanti i marchi interessati. Le informazioni riportate sul sito del ministero danno conto però solo dello stabilimento di produzione e del marchio di commercializzazione, non della provenienza del prodotto.

«Si mangiano le bacche di goji perché sono buone e fanno bene: hanno proprietà anti-ossidanti, non vedi la mia pelle?» scherza Erica, che è nata nel 1983. Oggi la giovane imprenditrice si sta impegnando a costruire una carta d’identità del frutto. Con l’Università di Firenze vorrebbe avviare un progetto per studiarne le caratteristiche genetiche e sperimentare la criofrantumazione, una sorta di lavorazione a freddo che conservi più intatte le sue proprietà. «Abbiamo partecipato ad un bando del GAL, l’agenzia locale di sviluppo, ma non lo abbiamo vinto. Attendiamo i prossimi». Il frutto rosso cinese è in Italia per restare. Anche in quest’angolo di Cina nel Mugello.