ETICO

In mezzo c’è il campus ReStartApp, nell’Estate 2021. Marta, alla fine, risulterà la prima classificata, a pari merito con Riccardo Arletti di Tipì. «Mi ha iscritto il mio compagno, “a mia insaputa”. Vedeva che nello sviluppo del mio progetto mancava una parte pragmatica, la capacità di gestire un’impresa, di tenere un conto economico o riuscire a capire qual è il prezzo giusto per gli abiti che realizzo» spiega Marta. Marco, il suo compagno, è una guida ambientale ed escursionistica, molto attivo nel tessuto sociale del territorio, e seguiva ReStartApp da anni. «Ha immaginato che potessi sfruttare quell’opportunità» sottolinea Marta. «Marco pensava che quell’esperienza fosse indispensabile e lo è stata: da quando sono arrivata sono stata “occhi aperti orecchie aperte” per raccogliere ogni aspetto. Lo ringrazierò per sempre». Tra i tanti insegnamenti che Marta ha portato a casa dal campus c’è l’importanza di valorizzare appieno il lavoro artigiano, che non significa «entrare nel mondo del lusso, anche se ci potrebbe stare, ma capire che un abito in pure seta, come questo» dice indicandone uno appeso a una gruccia «costa 400 euro e può essere adatto per un’occasione, un evento o un matrimonio». La lezione appresa Marta la sintetizza così: «Ho dovuto capire che io non sono il mio target».

Per un periodo ha provato ad acquistare dei tessuti certificati, da filiere sostenibili, ma poi è tornata al progetto originario, quello cioè di dare vita alle sue collezioni a partire da ciò che c’era. «Per non alimentare anch’io un sistema in iper-produzione, per evitare costi comunque molto alti, ho deciso di tornare all’idea originaria e recuperare gli scarti aziendali, tessuti sempre neutri, che ho la possibilità di usare anche l’anno prossimo o quelli dopo. Pochi metraggi,da cui magari ricavo appena due capi, che sul prodotto artigianale ci sta» spiega. Acquista tutto in un magazzino di Montefano, che raccoglie gli scarti del territorio, dove operano molti terzisti anche per grandi marchi della moda. Oltre ai tessuti ci sono anche bottoni, zip. «Non mi capacito dello spreco che c’è, come le aziende riescano a sostenerlo. Trovo anche tessuti di pure seta o misto seta-cotone, non capisco come sia possibile che accettino questo sistema fondato sullo “scarto”» racconta.

«All’inizio – racconta – lavoravo anche rotoli di panno di quelli che ognuno di noi ha nella soffitta di casa della nonna, quelli da cui si ricavavano le lenzuola in canapa e cotone o lino e canapa. Il problema è che non c’è tracciatura, non è possibile conoscere la composizione esatta. Ho trasformato anche i vecchi assorbenti in tessuto di nonne e zie, ne ho tantissimi, nuovi». Il problema della non tracciabilità torna anche per i colori. Le bucce di avocado, da cui ricava tonalità di rosa che vanno da quello antico a quello caldo, sono gli scarti di un ristorante. La buccia di cipolla gliela dà il fornaio. Dalla buccia di melograno ricava uno spettro di colori che va dal giallo limone al grigio antracite. «Tutto questo non trova una regolamentazione» sintetizza Marta.

 

Torna alla pagina 2 di 5

Vai a pagina 4 di 5