AGRIVELLO

Trasformare i rifiuti in risorse secondarie di alta qualità. Questo è ciò che fa Chiara, che è nata in Umbria nel 1990, dopo essere arrivata quasi per caso a porsi domande sulla lana. È successo in Friuli, dove si è trasferita per il biennio di specializzazione in Agraria, dopo aver conseguito la Laurea triennale a Perugia. «Nel 2017 ho iniziato anche il dottorato all’Università di Udine. Il mio campo di interesse era la produzione animale, in particolare la zootecnia» racconta. Salendo alla malghe e muovendosi tra i pascoli per un lavoro di ricerca sugli allevamenti di montagna e sulla produzione di formaggio, spiega di aver «iniziato a vedere ovunque nei fossi sacchi di plastica pieni di lana. Mi chiedevo -continua- chi avesse interesse a salire fino a 1.700 metri per gettarla. Non ne sapevo davvero niente e mi chiedevo perché non venisse conferita in un cassonetto». Così, dopo aver iniziato ad analizzare la questione, nel 2018 ha deciso di partecipare al campus ReStartAlp, promosso da Fondazione Edoardo Garrone insieme a Fondazione Cariplo. «Volevo trovare una soluzione al problema» assicura. La sua prima idea è fallimentare, racconta oggi sorridendo: «Una diavolina, l’avevo chiamata Angelina; sarebbe stato un cubo infiammabile con lana e cera d’api, altro prodotto di scarto. Con quell’idea ho risposto alla call per ReStartAlp. Non sapevo, però, che bruciare la lana fosse nocivo, perché produce gas solforati che sono dannosissimi. Inoltre, la lana è ignifuga. A quel punto ho pensato anche di tornare a casa, ma non aveva senso sprecare quell’occasione. Il mio obiettivo era immaginare un prodotto capace di recuperare la lana ogni anno, senza bisogno di lavarla. Così sono arrivata al pellet fertilizzante».

Chiara con il suo progetto si classifica al secondo posto nel campus ReStartAlp. «Mi ha un po’ frustrato vedere che mentre i due amici che hanno vinto quell’anno con me, Francesco Trovò e Luisa Lodrini, hanno trasformato rapidamento la loro idea in impresa, nel mio caso tutto era più lento, anche perché la difficoltà a ottenere l’autorizzazione ha reso più complesso lo studio degli effetti di un’innovazione di processo, perché un pellet come quello di Agrivello prima non esisteva». Chiara racconta tre anni di prove sperimentali, rese possibile anche grazie al supporto del Dipartimento di Scienze agroalimentari, ambientali e animali (DI4A) dell’Università di Udine, che ospita Agrivello presso l’Azienda agraria universitaria “Antonio Servadei”, a Pagnacco, alle porte di Udine. «Ho in affitto una stanza, che ospita il mio laboratorio. Intanto, do un supporto nella gestione delle pecore che stanno qui, un piccolo gregge di 38 animali. Sono un po’ le mie cavie, quelle che ho tosato la prima volta» racconta Chiara.

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